L’acido ossalico è una molecola attiva molto efficace contro la Varroa, se applicato in assenza di covata e con sufficiente umidità nell’arnia.

Non ha ancora ingenerato resistenze, non lascia residui nel miele e —a specifiche modalità operative— è ben tollerato dalle api. Queste caratteristiche (l’ultima, in particolare) sono però talvolta interpretate come un’implicita licenza ad applicare l’acido ossalico con eccessiva generosità: trattamenti ripetuti di routine per abbattere fino all’ultimo acaro, o effettuati in presenza di covata pensando che è meglio eliminare pochi acari che non lasciarli tra le api. ‘Ben tollerato a certe condizioni’ non è però un sinonimo di ‘innocuo’, e il fatto che non si siano ancora riscontrate delle resistenze all’acido da parte della Varroa non significa che non ne possano nascere. In questo scritto vorrei presentare un argomento aggiuntivo a favore di un uso prudente dell’acido ossalico —non di una rinuncia, perché attualmente l’ossalico rimane il mezzo dimostratamente più efficace di lotta alla Varroa, ma di un uso commisurato all’effetto che è necessario ottenere.

La conclusione che l’acido ossalico è ben tollerato dalle api si basa sulla consistenza numerica delle colonie prima e dopo il trattamento, a confronto con colonie di controllo che non vengono trattate (Charrière et al., Honey bee tolerance to different winter treatments against Varroa, Rev. Suisse Apic. 125, 2004, pp. 32–39). Le famiglie trattate arrivano a primavera un po’ più deboli del gruppo di controllo, ma il loro ritardo si colma in poco tempo (e, naturalmente, il gruppo di controllo non trattato arriva a luglio con un tale carico di acari da pregiudicarne la sopravvivenza).

Nella letteratura, tuttavia, non si considera la reazione immediata delle api al trattamento. Le poche api morte che si trovano sul predellino di volo sembrano essere l’unico segnale di moderata sofferenza. Ho tuttavia delle ragioni per credere che la cosa non sia così semplice.

Da qualche anno monitoro la temperatura interna delle mie colonie. Nella maggior parte di esse impiego termometri ragionevolmente accurati, due o tre per famiglia, le cui sonde sono infilate tra i telaini a circa 15 cm di profondità; la lettura si effettua esternamente, senza disturbare le api, in modo manuale. La registrazione dei dati è dunque discontinua, e il posizionamento dei sensori ha una forte componente erratica. Due colonie forniscono invece dati in flusso continuo tramite un prototipo del sistema ticinese di monitoraggio Beepro, in cui sensori sono sistemati tra i telaini in spazi alternati, sempre nella medesima posizione, e dunque con risultati comparabili nel tempo (i grafici dei dati sono consultabili sul sito http://beepro.ch). La ragione per misurare la temperatura dell’arnia è la medesima per la quale si misura la febbre degli animali a sangue caldo, umani inclusi: la temperatura è un fondamentale parametro fisiologico, che ci dice se l’organismo sta bene o se sta succedendo qualcosa di anomalo. Le api hanno un sistema di termoregolazione estremamente efficace: nella stagione della covata mantengono la temperatura costante attorno a 34.5°, indipendentemente dalla temperatura esterna.

Quando non hanno covata, regolano la temperatura del glomere, mantenendola costante al centro e ammettendo variazioni negli strati periferici a seconda della temperatura esterna. Questa termoregolazione ‘salta’ quando la normale fisiologia del sistema è disturbata. Per esempio, se d’estate si ingabbia la regina per poter effettuare i trattamenti, si blocca la covata e non c’è più nessuna esigenza di termoregolare. Lo stesso accade dopo una sciamatura. Oppure, se durante l’inverno la covata riprende, la temperatura al centro del glomere si alza rapidamente fino a portarsi al livello necessario per allevare larve e pupe.

La temperatura dunque varia quando muta lo stato fisiologico della famiglia, o anche solo in risposta a disturbi esterni. Se d’inverno si apre il coprifavo, per esempio, la temperatura si alza molto rapidamente, perché le api reagiscono alla situazione inattesa scaldando i muscoli toracici per essere pronte a involarsi. Tuttavia, quando si richiude nel giro di pochi minuti le api si calmano e gradualmente la temperatura ritorna nella norma. Non è dunque sorprendente che effettuando i trattamenti con l’acido ossalico le temperature salgano, anche parecchio. Ciò che è più soprendente è la durata, e talvolta anche l’intensità, di questa reazione. Il primo grafico illustra l’andamento delle temperature in 4 arnie, monitorate manualmente, in seguito al trattamento con acido ossalico, spruzzato in soluzione zuccherina (28 g di zucchero e acqua q.b. per 100 ml) o in soluzione al glicerolo (circa in proporzione 1 : 2) con acido ossalico al 3%. Il risultato è molto chiaro. Mentre prima del trattamento le api mantenevano nel nido circa 22°, dopo il trattamento (effettuato in assenza di covata il 15 ottobre 2017) le temperature sono immediatamente salite oltre 35°, in qualche caso raggiungendo i 42°. Le temperature sono rimaste sopra 30° per almeno 4-5 giorni in tutte le arnie trattate, in alcuni casi diversi giorni in più; le famiglie che hanno reagito portando le temperature a 42° li hanno mantenuti per due interi giorni. Questo risultato non è limitato alle arnie illustrate nel grafico, ma è condiviso da tutte le arnie nell’apiario trattate nel medesimo modo.

acido1 

 

Naturalmente si potrebbe pensare che questo effetto è causato dal disturbo alla colonia: dopotutto le api sono costrette a ricostruire i ponti tra i favi, asciugare l’umidità in eccesso, e ripristinare la chiusura ermetica dell’arnia redistribuendo la propoli, tutti compiti che richiedono alte temperature. Per verificare se questo sia il caso ho effettuato tre prove in una delle arnie monitorate da Beepro. Dapprima ho effettuato il trattamento, di nuovo con ossalico spruzzato in soluzione zuccherina; quando le temperature sono rientrate nella norma ho spruzzato di nuovo le api, con soluzione zuccherina alla medesima concentrazione ma senza acido ossalico. Infine le ho spruzzate una terza volta con acqua tiepida, cercando di irrorare con i medesimi quantitativi nelle medesime modalità. Il risultato è molto chiaro, ed è illustrato nel grafico successivo, che sovrappone le curve di temperatura registrate in seguito agli interventi dai sensori centrali, quelli con temperatura massima (Beepro ha 5 sensori di temperatura, spaziati uniformemente nell’arnia). Anche la colonia in Beepro ha reagito come le altre all’acido ossalico, scaldando fino a 34.4° (la temperatura massima è stata raggiunta non immediatamente, ma dopo un giorno), mantenendo la temperatura oltre 30° per 5 giorni per tornare ai livelli normali una settimana dopo il trattamento. Spruzzando con acqua oppure con soluzione zuccherina senza ossalico le temperature sono salite a un massimo di 33°, sono scese sotto i 30° in 9-14 ore, e sono tornate alla norma dopo 2 giorni. La conclusione è inevitabile. L’acido ossalico in soluzione zuccherina causa una reazione fisiologica molto più intensa e duratura di quanto non faccia il semplice disturbo portato dal liquido.

acido2

 

Due famiglie dell’apiario sono state trattate con acido ossalico sublimato. Anch’esso ha lasciato tracce sulle temperature, ma molto meno intense e durature delle precedenti. La temperatura si è alzata solo di qualche grado, e dopo un paio di giorni tutto è tornato alla normalità, come mostra il grafico della corrispondente arnia monitorata da beepro, che riporta i dati di tutti i sensori. L’arnia costruita ad hoc è cilindrica, e i sensori sono sistemati in verticale. T4 è in basso, vicino all’entrata e dunque molto soggetto alle fluttuazioni della temperatura esterna, e ha evidentemente risentito del calore del fornello del sublimatore salendo per qualche minuto a 45°.

Le api erano concentrate attorno a T3 (il secondo sensore dal basso), perché più in alto ci sono solo scorte.

acido3

L’anno precedente avevo trattato sempre spruzzando, ma in soluzione acquosa (ancora al 3%), senza zucchero né glicerolo. I risultati sono stati simili, ma non così uniformi. Le temperature erano salite, ma un po’ meno e con durate molto variabili. Addirittura, quando ho ripetuto il trattamento in novembre a causa del numero molto elevato di Varroe cadute la prima volta, le temperature non sono salite del tutto (e non era caduta neppure una varroa, nonostante ce ne fossero). La conclusione è che (almeno nel limitato numero di esperimenti che ho potuto condurre: non ho testato gli sgocciolati, con soluzione zuccherina più concentrata) il riscaldamento non è indipendente dal metodo di applicazione: la soluzione zuccherina o con glicerolo produce calore molto più intenso e duraturo, il sublimato determina una reazione fisiologica piuttosto debole, e lo spruzzato in soluzione acquosa dà una reazione intermedia in quanto a intensità e variabile in quanto a durata.

Congetturando che l’intensità e la durata del calore prodotto riflettano l’intensità e la durata dell’effetto dell’acido, se ne dovrebbe dedurre che mentre l’applicazione di soluzione zuccherina produce un effetto intenso e protratto (fin troppo protratto: oltre il 90% delle varroe è caduto nei primi due giorni, per cui l’azione successiva non ha prodotto effetti di rilievo sulle varroe, mentre ha continuato a disturbare le api), le applicazioni non zuccherine e per sublimazione sono meno efficaci e per meno tempo. Azzardo una possibile spiegazione: l’acido ossalico, come tutti gli acidi, richiede umidità per agire. L’aggiunta di zucchero o di glicerolo alla soluzione costituisce, per così dire, una riserva chimica di umidità, che dunque permette all’acido di essere attivo finché dura l’additivo. La soluzione acquosa fornisce direttamente un po’ d’acqua, che tuttavia evapora presto, dopo di che l’acido può agire solo se c’è sufficiente umidità nell’arnia. Il sublimato dipende interamente dall’umidità dell’arnia.

Poiché in assenza di covata le api non scaldano più di tanto e quindi non producono molta umidità (l’acqua è un sottoprodotto della trasformazione degli zuccheri del miele in energia: più si scalda, più se ne produce), la presenza di acqua dipende dall’umidità esterna. Se questa è scarsa, l’acido agisce poco. Sia lo zucchero che il glicerolo, inoltre, aumentano l’adesione del liquido e favoriscono la trasmissione per contatto dell’acido da un’ape all’altra, ed è appurato che l’ossalico agisce per contatto e non per ingestione o per evaporazione. In presenza di questi additivi, dunque, l’acido agisce in modo più efficace.

Congiuntamente, questi meccanismi potrebbero spiegare la minore intensità dell’azione in assenza di zucchero, e la variabilità della durata dell’effetto dell’acido. Del resto è noto anche che accresciute concentrazioni di zucchero nella soluzione acida aumentano la mortalità delle api a lungo termine (Charrière e Imdorf, Oxalic Acid Treatment by trickling against Varroa destructor: recommendations for use in central Europe and under temperate climate conditions, Bee World 83, 2002, pp. 51–60). La crescita di temperatura, in questo caso, potrebbe essere un sintomo precoce di questo effetto. Non saprei dire se questa congettura sia corretta, né in quale modo precisamente le api siano disturbate (non abbastanza da morire in gran numero, ma abbastanza da causare una reazione febbricitante più o meno intensa di durata compresa tra due giorni e una settimana): questo sarà oggetto di ricerca più specifica da parte di chi ne ha i mezzi. Ma mi permetto comunque di trarre una conclusione, almeno provvisoriamente: l’ossalico non è innocuo per le api, come minimo le disturba parecchio.

Le varroe sono naturalmente ancora più dannose. Eliminarle comporta però un prezzo che, nella mia esperienza, molti apicoltori tendono a sottovalutare. Il suggerimento che traggo da queste osservazioni è che occorre cercare il giusto equilibrio tra dannosità delle varroe (che può essere stimato solo conoscendo il numero di acari e familiarizzando con la matematica della loro riproduzione) e dannosità dell’acido ossalico, evitando di trattare in modo ripetuto se non è strettamente necessario e soprattutto evitando i trattamenti estremamente inefficaci (e pericolosi in quanto illusori) in presenza di covata. Moderando l’uso dell’acido si riduce anche il rischio che insorgano resistenze (cosa tutt’altro che impossibile: alcuni meccanismi plausibili sono già stati identificati): queste sarebbero una disgrazia per l’apicoltura, perché ci priverebbero dello strumento più efficace di cui disponiamo.

 

Daniele Besomi

Accedi per commentare